Le storie di due ospiti del progetto Emergenza Nord Africa
ISSA SANI
«Mi chiamo Issa Sani, ho 25 anni e sono del Niger, ma per parecchio tempo ho lavorato in Libia in una fabbrica di carburanti. Quando è scoppiata la guerra contro Gheddafi, mi hanno costretto a salire su una barca, senza nemmeno sapere dove stessi andando. Ero in casa con cinque amici, sono entrati degli uomini armati, non so se ribelli o truppe governative, e hanno ucciso davanti ai miei occhi una persona. Sono scappato, ma mi hanno colpito. Mi sono risvegliato all’ospedale e quando mi hanno dimesso, la polizia mi ha costretto a salire su un’imbarcazione, anche se io avevo dichiarato di voler tornare al mio Paese.
Il 7 maggio 2011 sono sbarcato a Lampedusa, poi mi hanno trasferito qui. Dopo tre giorni ho chiesto ad un tunisino il nome della città: prima non avevo mai sentito parlare di Bergamo. In questi due anni ho fatto ben poco. Ho frequentato il corso di lingua italiana, ho aiutato gli operatori in qualche attività e ho ottenuto un contratto di 10 ore settimanali per fare le pulizie nel quartiere.
Io sono il responsabile della mia famiglia perché mio papà è morto, mia madre è anziana e un fratello studia inglese in Ghana. Vorrei trovare un lavoro per continuare a inviare soldi a casa, che sia qui in Italia o in un altro Paese. Non posso tornare in Niger senza niente.
A Bergamo e ad Ambria, dove sono stato accolto dalla parrocchia, ho trovato tante brave persone e ho stretto anche delle amicizie. Però speravo di poter far di più per me stesso e per questo Paese, invece la situazione economica è difficile e non riuscito a trovare un’occupazione.
Mi è stata riconosciuta la protezione umanitaria, ma senza un lavoro non so davvero cosa fare, non so come immaginarmi il mio futuro».
ESTHER SUNDAY
«Sono Esther Sunday, una ragazza nigeriana di 27 anni. Fino al 2011 vivevo felice in Libia, senza avere alcun problema. Facevo le pulizie e guadagnavo abbastanza per me e per inviare del denaro in Nigeria alle persone che mi hanno cresciuto.
Poi è arrivata la guerra e durante i disordini il proprietario di casa ci ha detto che dovevamo lasciare il Paese. Ci hanno forzato a salire sulla barca. Era notte, la gente piangeva. Dopo 24 ore di viaggio siamo arrivati in Italia. Lo abbiamo scoperto solo quando ce l’hanno detto i soccorritori, perché prima non sapevamo dove ci stessero portando.
Io non volevo venire in Italia, vivevo bene in Libia. Quando sono arrivata ero spaventata, ma ero cosciente che non potevo tornare indietro perché ci avevano cacciato e c’era ancora la guerra.
Abito ad Urgnano, alla cascina Battaina, dal 28 luglio 2011. Qui ho studiato l’italiano, superando il test per il certificato di livello A1. Ho avuto il diniego per ottenere il permesso umanitario, così con l’aiuto delle educatrici ho fatto ricorso, raccontando la mia storia.
Purtroppo non ho trovato lavoro, se non un per un breve periodo durante il quale ho svolto un tirocinio tra Casa Amadei e il Patronato San Vincenzo. Non posso tornare in Nigeria e vorrei poter lavorare qui in Italia, in modo da affittare una casa e ritornare ad una vita normale. Mi piace molto la lingua italiana e ho deciso che la mia vita sarà qui. Certo non mi aspettavo di trovare un Paese dove non c’è lavoro.
Qui ho incontrato tante persone disponibili, a cominciare dalle operatrici della Battaina, ma non posso ritenermi felice finché non avrò trovato un impiego».
Ad alcuni operatori dell’Emergenza Nord Africa è stato chiesto di riflettere sul proprio lavoro, rispondendo a queste domande:
1. Come descriveresti dal tuo punto di vista professionale e personale questa esperienza?
2. Quali sono state le difficoltà maggiori nel rapportarsi con i profughi?
3. Quali sono le differenze che hai trovato rispetto alla tua precedente esperienza con i migranti?
4. Che cosa hai imparato da questa esperienza?
5. Col senno di poi: qual è stata la scelta più giusta e quella più sbagliata che avete fatto nel lavoro educativo con i profughi?
Le risposte degli operatori
Roberto Zanotti – educatore di Casa Amadei
1- La definirei con alcuni aggettivi: piena, densa, emozionale, faticosa.
2- La cultura differente, la lingua. Il pensiero mio occidentale da rapportare a quello dei ragazzi nostri ospiti.
3- Per mè è stata la prima esperienza con gli immigrati.
4- Ho imparato diverse cose: la fondamentale è una nuova cultura a me sconosciuta fino all’anno scorso.
5- La mia scelta più giusta penso sia stata quella di rapportarmi con i ragazzi con semplicità e rispetto, cosa che sicuramente ha pagato con loro.
6- Sbagliata è stata quella di non essere stato in grado di comunicare bene ai miei colleghi il malcontento causato da diversi fattori, uno di questi anche la non completa attenzione nei loro confronti che cresceva tra i nostri ospiti.
Karim Zreba – operatore di diverse strutture maschili
1- Credo sia stato un modo interessante per conoscere il modo di pensare ed agire di persone di altre culture. Nonostante a volte la mancanza di un vero e proprio obbiettivo reale si è fatto sentire.
2-A dire la verità non credo di avere avuto problemi nel rapporto con i profughi a livello umano. L’unico problema credo che credo di aver avuto è stato nel passaggio di informazioni dall’ufficio a i profughi.
3- A volte le informazioni erano poco chiare e lacunose, senza contare le volte che ci siamo dovuti rimangiare la parola.
4-Io non ho avuto una vera e propria esperienza con migranti. In passato ho avuto modo di lavorare con persone provenienti dall’africa sub sahariana, ed ho riscontrato gli stessi caratteri nonostante la differenza di condizione.
5-Pensare bene prima di parlare
6-Parlo della mia esperienza, la scelta più giusta secondo me è stata quella di stabilire un rapporto umano con i ragazzi senza però perdere il rispetto. Mentre la scelta più sbagliata è stata quella di non avere una programmazione seria, per introdurre i ragazzi nel mondo lavorativo Italiano.
Zerbini Silvia – operatrice della struttura di accoglienza per donne Cascina Battaina
1- Difficile…può sembrare una parola scontata o comune ma se penso agli ultimi 17 mesi mi accorgo quanto sia stato difficile raggiungere l’equilibrio in cui mi trovo in questo momento. Ho pensato molto spesso di mollare la presa e andarmene di fronte alle più svariate difficoltà di questo lavoro, ma la costanza e la voglia di arrivare fino in fondo mi hanno portato esattamente dove sono ora…è stato difficile ma ci sono riuscita grazie all’aiuto di diverse persone.Se dal punto di vista professionale è stato spesso difficile, dal punto di vista personale posso solo riconoscere l’importanza di tutte le fatiche affrontate. È stato un continuo mettersi alla prova; molto spesso ho dovuto fare tabula rasa e ricominciare da capo cercando la strada migliore per poter affrontare le difficoltà di un lavoro che ti dà la possibilità di imparare giorno dopo giorno grazie al contatto umano.
2- È stato difficile conoscere e successivamente adattarsi a culture diverse dalla mia. È stato difficile giustificare le lentezze burocratiche davanti a persone che spesso non sapevano distinguere i ruoli professionali e istituzionali. È stato difficile gestire la quotidianità tra 30 donne che a volte facevano fatica a sopportarsi tra di loro. È stato difficile trovare un modo per comunicare con chi difficilmente è abituato ad ascoltare. È stato difficile farsi rispettare senza passare necessariamente per quella “cattiva”, riuscendo a trovare un giusto compromesso tra le parole lavoro e amicizia. È stato difficile rendere indipendenti e autonome persone che inizialmente pretendevano di essere servite in ogni piccola cosa…è stato difficile ma grazie ad un lavoro di squadra abbiamo raggiunto importanti traguardi.
3-Questa è stata la mia prima esperienza con i migranti.
4-Parto dalla convinzione che ogni esperienza brutta o bella che sia, abbia la capacità e forse anche il dovere di insegnare qualcosa. Quest’esperienza per me è stata brutta e bella allo stesso modo e allo stesso modo mi ha insegnato ad accettare i “tempi” degli altri…con tempi non intendo solo i minuti di attesa per i continui ritardi, ma intendo soprattutto i tempi relativi all’organizzazione della propria vita…i tempi per capire come fare determinate cose, quando farle e soprattutto perché farle. Molto spesso si sente dire “ognuno ha i propri tempi”…ecco questa esperienza mi ha esattamente insegnato il valore di questa frase dandomi una pazienza che non credevo di avere.
5-La scelta più giusta forse è stata la capacità di mantenere ben saldo un ruolo preciso . Come detto precedentemente trovare il punto di incontro tra la parola lavoro e amicizia non è molto semplice, ma credo di averlo raggiunto o almeno lo spero. Mantenere quindi questo ruolo mi ha aiutato molto nel rapporto con le donne e nella gestione dei diversi problemi e credo che abbia aiutato anche le donne stesse ad essere un po’ più autonome e indipendenti.
6-La scelta sbagliata? Aver mollato la presa con alcune ragazze, demoralizzandomi e a volte arrabbiandomi per la loro incapacità di capire, ascoltare e accettare.
Elisabetta Aloisi – operatrice della struttura di accoglienza per donne Cascina Battaina
1. Dal mio punto di vista personale la descriverei come un’ondata di colori, emozioni, rumori, insegnamenti. Un’ondata, perché durante tutta l’esperienza non mi è mai mancata una volta l’impressione che il tempo fosse troppo poco, che io fossi troppo lenta per stare al passo delle donne, per fermarmi a capire davvero, che già si era aperto un nuovo spiraglio. Un’onda mi sembra un’immagine adatta, proprio perché avvicinandomi alla fine del progetto mi sento come se fossi stata letteralmente travolta da tanti, ma così tanti punti di vista che gran parte delle mie convinzioni si sono modificate e non ho ancora avuto il tempo di assimilarle. Sì, se dovessi usare un’immagine, le mie donne profughe sono state un’ondata che mi hanno travolta, un’ondata di colori, sguardi, profumi e sapori nuovi.
2.Le difficoltà più grandi che ho avuto sono nate dall’aver dato per scontate alcune categorie senza averne approfondito la complessità: categorie come la puntualità, il rispetto, la coerenza…sono davvero poco scontate per persone che alle volte non sono mai state rispettate da nessuno, o non hanno mai portato al polso un orologio. Dunque il loro non rispetto di queste categorie non va interpretato come disobbedienza, ma come una mancanza da colmare. E non è il caso di reagire con rabbia e delusione, o di pensare di aver fallito, come, invece, spesso mi è capitato.
3. Ho trovato delle differenze immense. La prima esperienza con i migranti è stata come insegnante di italiano…davanti a me ho trovato migranti adulti, di diversissime provenienze, far tesoro di ogni mia parola, sforzarsi di appuntarla sul quaderno, di stamparla nella mente. Ai profughi soltanto poche (e importanti) volte sono riuscita a dire parole che catturassero davvero la loro attenzione. Con il tempo ho capito la loro diversità: tra il migrante che sceglie il viaggio di migrazione, che sceglie l’Italia, e il profugo: i profughi non hanno scelto l’Italia ma sono stati messi violentemente su dei barconi e vomitati a Lampedusa. La Libia piaceva a molti di loro, l’avevano scelta, quando avevano lasciato i loro paesi. Già una volta si erano ricostruiti una vita e in Libia avevano un lavoro, una casa, alle volte una donna delle pulizie! Quanta fatica ci vuole ad imparare uno stato così difficile come l’Italia, che non ha lavoro per loro quindi nessuna possibilità di indipendenza. Quanto può essere difficile doversi rimboccare le maniche quando il paese dove si erano stabiliti li ha appena rifiutati e un altro viaggio di migrazione, così faticoso poi, non era nei piani di nessuno.
4. Ho imparato che essere puntuali non significa sempre portare rispetto. Ho imparato che in Africa qualsiasi donna è una mamma e che se un donna ti affida il suo bambino vuole dirti che anche tu fai un po’ parte della sua immensa famiglia. Ho imparato che in una discussione con una donna di una cultura diversa ogni concetto non va dato per scontato ma approfondito, ripetuto, tradotto. Ho imparato che cose che a noi possono sembrare pazzesche come il wodoo, o gli spiriti…vanno presi come se davvero esistessero se secondo le persone con cui si sta lavorando senza dubbio esistono. Ho imparato che le leggi italiane possono sembrare assurde quanto a noi sembra assurdo il wodoo alle volte e che per rispettare una regola tutti abbiamo diritto di comprenderne il senso.
5. Prima di cominciare il lavoro, con una donna in particolare, avevo fatto una specie di piano di lavoro, decidendo che sarei partita ad insegnarle come ci si veste in Italia, quante volte al giorno si va a far la spesa, passando poi dal come si va dal dottore al cercare lavoro. L’errore è stato pensare che io potessi dettare i tempi, senza considerare che i tempi d’apprendimento di un’altra cultura, per una donna dalla cultura così diversa dalla mia, era la lei a doverli dare e non io. Così sono andata incontro per i primi mesi a delusioni, credendo di non averle insegnato niente; e soltanto quando ho cominciato a capire e ad ascoltare il suo modo di apprendere, che è un continuo sperimentare, un continuo confrontare con la sua cultura, dunque molto lento, ho potuto vedere quanto invece stava imparando. La scelta più giusta, appunto, è stata quella di rispettare i loro tempi. Ad un certo punto, stanca di spiegare, ho lasciato che il mio semplice essere italiana servisse da esempio. Ogni mio comportamento, modo di vestire, modo di arrabbiarmi o di essere felice, era analizzato dalle donne molto più di quanto potessi pensare. Ma a differenza di me loro non traevano conclusioni categoriche dall’analisi dei miei comportamenti, non facevano discorsi del tipo: “urla dunque è troppo nervosa, dorme di giorno dunque è depressa, va in giro vestita da prostituta dunque non è una donna degna di avere figli e un lavoro…”. Per loro osservare il mio modo di fare era un tentativo di capire qualcosa in più della cultura italiana, che a volte sentivano così stretta. Quando ho imparato a lasciarmi osservare, a spiegarmi per il mio modo di essere, è stato come se la loro fiducia aumentasse e il mio lavoro acquistasse valore. Non si trattava più di dare insegnamenti forse fuori luogo, come fare il CV o andar alle agenzie interinali, che in effetti per una donna analfabeta non sono il modo migliore di cercare lavoro. In questo modo erano loro ad osservare, a sentirsi libere di chiedere ciò che effettivamente non capivano, di imparare nel momento in cui ne avevano voglia, mostrando a me dove erano pronte per capire e dove era il momento giusto per intervenire.